Colla parola verdura, in generale, si designa tutto ciò che di verde dà l'orto e che serve a nutrimento. Propriamente però, la verdura è tutto ciò che è erbaceo, mentre col nome di legume designansi, dai botanici, quelle piante il cui seme è chiuso in gusci o baccelli. È verdura, dunque, il prezzemolo, la lattuga, la cicoria, l'asparago, i cardi, l'articiocco, il cavolo, ecc. È legume il fagiolo, la fava, il pisello, la lente, il cece, ecc.
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Colla parola verdura, in generale, si designa tutto ciò che di verde dà l'orto e che serve a nutrimento. Propriamente però, la verdura è tutto ciò
Non pulite, nè raschiate, nè lavate la verdura ed i legumi se non al momento di farli cocere — e allora sieno ben lavati e puliti anche in due, tre acque. I legumi freschi devono essere messi nell'acqua bollente e salata — i fagioli però ad acqua fredda e il sale a metà cottura. Sia per la loro natura coriacea, sia per la qualità d'acqua in cui si fanno bollire, che spesso contiene dei sali calcarei — talvolta i legumi assumono del ligneo e del tiglioso. Si rimedia a ciò mettendo nella pentola in cui bollono della cenere nella quantità di un ovo, chiusa in un sacchetto di tela. Oltre ad accelerarne la cottura, la cenere migliora il sapore dei legumi; l'acqua piovana, del resto, è migliore di quella del pozzo. Gli spinacci, la cicoria, gli asparagi, i fagioli devono essere cotti in molt' acqua: i secchi, messi fin dalla sera antecedente, in acqua tepida, si asciugano poi e si fanno cocere a grand'acqua, e, se volete conservar loro il color verde, non coprite la pignatta.
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cocere a grand'acqua, e, se volete conservar loro il color verde, non coprite la pignatta.
L'Asparago, chiamato pure dagli Ateniesi Asparagus e dagli altri Greci Asparagon, trae il suo nome dalla parola greca sparasso (lacerare) stante che qualche specie è munita di spine laceranti. Il seme à virtù geminatrice per 5 anni. È pianta oleacera nota e gradita. Vuole esposizione di mezzodì. È spontanea nei terreni sabbiosi d'Europa. Tre le varietà principali: — il bianco, precoce e molto produttivo, verde all'estremità, che è quello d'Olanda e del Belgio — il violetto, più grosso di colore violetto o rossiccio all'estremità, che è quello di Ulma, Polonia-Darmstadt — e il verde, meno grosso del precedente, ma più saporito, verde e tenero in tutta la sua lunghezza, che è quello di Piemonte (celebri quelli di Cilavegna). L'asparago di Praga è il medesimo. Si moltiplica per mezzo delle radici, dette occhi, ma egualmente, e forse meglio, si ànno asparagiaie colla semina. Durano le radici dai 20 ai 30 anni e più. Se ne mangiano i talli in primavera. Gli asparagi, costituiscono una verdura saporitissima, di facile digestione, gradevole, ma poco nutritiva. Servono a moltissimi usi in cucina. Si fanno cocere senz'acqua in tegame di terra o fortiera, chiusi a foco lento, ove cocendo col proprio vapore, sono più saporiti, devono essere poco cotti altrimenti perdono del loro sapore, dieci o quindici minuti tutt' al più. Si condiscono con burro od olio. Si mangiano in insalata con olio, pepe e limone. Si friggono col pesce infarinati, s' accompagnano alle ova, al riso, agli stufati, nei ragouts e nei potaggi.
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spontanea nei terreni sabbiosi d'Europa. Tre le varietà principali: — il bianco, precoce e molto produttivo, verde all'estremità, che è quello d
Pianta di circa quindici piedi d'altezza, sempre verde, dell'America tropicale, somiglia al limone. Dà fiori piccoli, giallognoli. Si coltiva come il caffè. Nel linguaggio delle piante: Salute. I frutti bislunghi di questa pianta, simili a piccoli citrioli, racchiudono in una poltiglia agro dolce molti semi bianchi (fino a 40), a foggia di mandorle. Questi semi o grani, divenuti di color bruno, grazie ad una specie di fermentazione, sono quelli che in commercio, vengono sotto il nome di grani, semi o fave di cacao, e che torrefatti od abbrustoliti convenientemente si mangiano e servono a preparare confetture, e misti collo zuccaro e droghe, massime vaniglia e canella, servono pure alla fabbricazione della Cioccolatta. I grani del cacao si raccolgono a perfetta maturanza in giugno e dicembre, e in tale stato la polpa che avviluppa i semi è morbida, addotta, piacevole, molto rinfrescante e salubre, che gli indigeni trasformano in liquore vinoso, bevanda graditissima. Anche nel nord della Francia, nel Belgio e in Olanda colle corteccie del cacao si prepara una bibita salubre e piacente. Gli involucri e i germi si utilizzano dagli indigeni per nutrizione dei montoni e come ingrasso. Inoltre dalle sementi si cava un olio che ha la consistenza del burro e si chiama burro di cacao, che è un eccellente cosmetico. Si amministra internamente negli organi della digestione, respirazione e dell'apparato orinario, esternamente nell'intestino retto, perstitichezza, emorroidi, screpolature delle labbra, mammelle, ecc., e viene spesso falsificato con sego, midollo e cera. Del Theobroma se ne conoscono da 15 a 18 specie, delle quali le principali sono: la Bicolor, la Guajanense, la Cacao e la Speciosum. Dalla Cacao e Guajanense se ne cava il cacao del commercio. Le regioni che danno il cacao migliore sono Soconusco nel Messico, i cui grani di scarto servono per moneta, ed Esmeralda nella Repubblica dell'Equatore, ma diffìcilmente quel cacao arriva fino a noi. Dopo viene il Caracca, delle Antille, S. Domingo, Giammaica. Nel 1518 all'epoca della conquista del Messico, il cacao era la principale alimentazione del popolo Messicano. Il suo nome di Theobroma, dal greco — da Theos, Dio, e da broo per brosco, mangiare — Cibo divino. Fu Linneo che lo chiamò cosi — alcuni dicono perla sua passione alla cioccolatta, altri per deferenza al suo confessore, altri ancora per galanteria, essendo stata una regina, Anna d'Austria, che per la prima la introdusse in Francia.
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Pianta di circa quindici piedi d'altezza, sempre verde, dell'America tropicale, somiglia al limone. Dà fiori piccoli, giallognoli. Si coltiva come il
La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in luglio ed agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi che sono quelli che tosti[mo, e che ci danno la deliziosa bevanda del caffè. Questi semi quando sono verdi e maturi sono circondati da una polpa dolcigna bona a mangiarsi. Si propaga per seme. Da noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla differenza specifica, ma dalla provenienza commerciale e geografica. Generalmente tutte queste varietà si riferiscono a tre tipi: Molta, Borbone e Martinica, che da noi è sostituito col Porto Rico. Il migliore caffè è quello che proviene dalla sua patria primitiva, ma rarissimamente giunge in Europa. Il Moka, o Levante (dal nome del suo antico porto di esportazione) è un prodotto del Yemen montuoso, il suo colore ricorda quello del the e questo pure rarissimamente ci perviene. È consumato quasi interamente in Turchia, in Asia, in Persia ed in Egitto. Quello che perviene a noi sotto il nome di Moka, è Moka di Zanzibar, di Aden e di Giava, a piccoli grani, accuratamente scelto.
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La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove
La Canella appartiene alla famiglia dei Lauri, è un albero sempre verde, ramosissimo (s'alza fino a 10 metri) del Ceylan, Borneo, Malabar e Martinica. È detta canella, quasi canna, del suo accartocciamento. Vien però chiamata Cinnamomo e Chiamo, che vuol dire legno odoroso. Quella del Malabar chiamasi pure Laurus cassia. La sua scorza, o corteccia, privata di epidermide e di sottostante tessuto è la droga da noi conosciuta sotto il nome di canella, che, verde sopra l'albero, diventa bruno-rossa essicando. À un odore aromatico, grato, penetrante, sapore caldo, piccante, zuccherino. Dà fiori in gennaio piccoli, numerosi, profumati, biancastri in pannocchia terminale. Si moltiplica per margote e da noi è vegetazione di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e delle piante, significa: Adorazione. I giardini o boschetti di canella somigliano i nostri boschi cedui. Nel Goylan la raccolta ascende a 140 chilogrammi ogni anno. La canella del Ceylan, i cui principi attivi sono solubili nell'acqua e nell'alcool, è giornalmente impiegata nella medicina, nella farmacia e nell'economia domestica. Nella medicina si associa utilmente alla china, all'assenzio, ecc., nella debolezza di stomaco, nelle diarree croniche, nell'ultimo periodo delle febbri atassiche o di tifo, nella salivazione spontanea, ecc. I farmacisti apprestano con essa gran numero di preparazioni, un decotto, uno sciroppo, una tintura, un'acqua distillata, ecc. di uso assai frequente, e bene spesso per coprire l'odore ed il sapore disaggradevole di altri farmachi. Tutti conoscono l'uso che ne fanno i profumieri, distillatori, caffettieri, e i cuochi nel loro laboratorio gastronomico. La canella è droga che si unisce a molti manicaretti, sì di carne che di verdura e frutta. È eccitante, tonica, cordiale. In commercio generalmente si trova quella della China, di Sumatra, di Cajenna e del Malabar, ma quella del Ceylan (di un colore cedrino-biondo, corteccia sottile, ravvolta in sè), detta anche della Regina, è la più apprezzata di tutte. Dopo quella del Ceylan viene in secondo rango, per bontà, quella di Cajenna: quella della China è l'infima. Si falsifica mescolandola con qualità inferiori, o con false canelle, o vendendola già spoglia del suo aroma. Frodi più gravi si fanno colla canella in polvere, con farine, polvere d' altri legni, mattoni pesti, ocre, sabbia, ecc. Dalla canella si ricava un olio volatile, aromatico, che serve per liquori e confetture. Dai fiori pure e dalle foglie si estrae un'acqua spiritosa. Col nome di Cinnamomum, fu conosciuta dagli antichi ed era, fra le altre droghe, articolo di commercio ricercato e prezioso. Tutti gli autori ne fanno menzione. Salomone parlando alla sposa, nei Sacri Cantici, le dice:
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La Canella appartiene alla famiglia dei Lauri, è un albero sempre verde, ramosissimo (s'alza fino a 10 metri) del Ceylan, Borneo, Malabar e Martinica
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza, frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color gialloverdognolo, à scorza spessa, aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi, servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello charlotte, e al confetturiere per regalarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica, antispasmodica, e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a fare emulsioni amare. Del resto, fu sentenziato: Medica mala quidam, nec mala, nec medica. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio, sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela, lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria, e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio che serviva a preservare dalla carie e dalle figliuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur (Trist, 1). Del resto, la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella
tratta di ciliege, e tre se marasche, un po' di canella, qualche chiodo di garofano e la scorza verde di mezzo limone. Al primo bollore toglietene la schiuma, e con essa le droghe ed il limone. Addensato il sugo, gettatevi dentro le ciliege o le marasche (nella dose dì un chilo) dopo d'aver loro tolto i noccioli. Dopo alcuni subbogli versate il tutto su delle fette di pan francese. Servite questa zuppa fredda o ghiacciata.
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tratta di ciliege, e tre se marasche, un po' di canella, qualche chiodo di garofano e la scorza verde di mezzo limone. Al primo bollore toglietene la
si fa nascere su letto caldo e si trapianta in aprile in luna vecchia. Avvene molte varietà: Il bianco grosso, da insalata, il piccolo, per aceto, il giallo precoce, il tondo a pelle ruggine ricamata, che à carne fina bianchissima, il verde lungo inglese, quello d'Atene, ecc. Il citriolo à odore suo proprio, raccogliesi il frutto acerbo, o mal maturo, e ridotto in fette si mangia in insalata con olio, aceto, sale e pepe. I piccoli si mettono in conserva nell'aceto, per mangiarli colla carne a lesso. I citrioli, per molti sono indigesti, per molti altri, rinfrescanti. Se cotti amano il lardo. Si fanno farciti come le zucche e servono come guarnizione. Dei citrioli tutti ne dissero male. Fu sempre reputato un cibo difficile a digerirsi. Galeno voleva che si abolisse dai cibi dell'uomo, come la più iniqua delle vivande, e Plinio asseriva che gli restava sullo stomaco fino al giorno dopo. Nerone ne era ghiottissimo e Tiberio ne mangiava ogni giorno, ma cotti. I milanesi per dire che una cosa vai poco, ànno il proverbio: la var trii cocùmer e un peveron. E per dare dell'imbecille ad alcuno lo chiamano un cocùmer. I citrioli erano una delle dolci rimembranze egiziane degli Ebrei nel deserto. Una ricetta di Dumas:
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giallo precoce, il tondo a pelle ruggine ricamata, che à carne fina bianchissima, il verde lungo inglese, quello d'Atene, ecc. Il citriolo à odore
Il coriandolo, o coriandro, o cimina, è pianta antica, originaria dell'Oriente e della Grecia, che passò in Italia e nella Francia meridionale, ove si è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in aprile, si raccoglie in settembre, cresce dai 30 ai 90 centim., à foglie verdi chiare, fiori bianchi e porporini in maggio e giugno. Nel linguaggio dei fiori significa: Merito nascosto. Il suo nome coriandolo dal greco coris, cimice e da ambluno rintuzzare, perchè rintuzza la vista. I suoi grani freschi e le foglie verdi ànno un odore disgustoso di cimice, massime quando fa nuvolo e piove, per cui è anche chiamata: erba cimicina. Essicati sono gradevolissimi, aromatici, stimolanti. Entra il coriandolo nella composizione di molti liquori, in ispecie del Gin; serve come droga di cucina ed è condimento aromatico presso i popoli del nord. L'adoperano per aromatizzare la birra, lo mescolano al pane, lo masticano dopo il pasto, per facilitare la digestione, espellere le flattulenze e rendere gradevole l'alito della bocca. Gli Spagnuoli mettono le foglie del coriandolo nella zuppa, alla quale danno un sapore molto forte, e le mangiano pure in insalata. I medici gli assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'acqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti. Pestati e fatti cocere nell'acqua a densa decozione, servono contro le pulci spruzzandone le lettiere ed il suolo. I coriandoli, ànno dato il nome a quei proiettili di farina e gesso che negli ultimi giorni del Carnevalone insudiciano le vie, le case e gli abiti dei Milanesi. Gli antichi consideravano il coriandolo, allo stato verde, come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo trito e misto ad aceto serviva per conservare le carni nell'estate presso i Romani. La manna degli Ebrei somigliava al seme bianco del coriandolo del quale ne aveva pure il gusto (Ex., 16, 31) il che è confermato anche nel Libro dei Numeri (17, 7), tranne che ivi si aggiunge che la manna aveva anche il sapore del Bdellio, albero babilonese, trasudante una specie di gomma aromatica, ricordato pure da Plauto (Cure, Se. 2, a. 1) Tu crocum, tu casta, tu bdellium.
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consideravano il coriandolo, allo stato verde, come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della palma oriente, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America meridionale e di molte parti dell'Africa. È diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 chilogrammi di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Non dà frutti che dopo moltissimi anni. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche, i frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale. I migliori sono quelli d'Alessandria d'Egitto. Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne, colla fermentazione, un liquore inebbriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane, e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente. Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. Il calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma, lavorati, si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica chiamata delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. È questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Senofonte nel 2.° libro della Spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d' allora si candivano perchè i freschi eran fin d' allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca. Dei datteri si dice:
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Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della palma oriente, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America meridionale e di molte
Fig. — Spagn.: Heigo. Il Fico è albero a foglie caduche, che cresce spontaneo nel mezzodì d' Europa. Viene in tutti i terreni, desidera posizioni calde, soleggiate, asciutte, difese dai venti, teme sopratutto i balzi di temperatura. Si propaga per margotte, polloni, tallee. Non ama essere tagliato, perchè avendo tessuto a fibre rade, facilmente ne soffre per l'acqua che vi può penetrare, e quando è necessario bisogna ricoprire il taglio con mastice, catrame, ecc. Comincia a dar frutto il terzo anno. Se ne conoscono 62 varietà, tra le quali, alcune non mangiabili e velenose. Il nome di Fico, dal greco phyo, produrre, a cagione della sua fecondità, e nel linguaggio delle piante significa pure: Fecondità. I fichi primaticci sono chiamati fioroni, e sono i frutti il cui germe era già sul ramo nell'autunno precedente. Maturano in luglio, e sono meno saporiti dei tardivi ed autunnali. Tranne un gran gelo, il fico dà un prodotto quasi sicuro. In Italia e negli altri paesi meridionali, dà un frutto che è un vero sciroppo fisso e profumato. Per farlo essicare, scegliere le varietà precoci. L'essicamento al forno, lo rende meno bello e meno saporito. Il fico frutto, contiene il 65 per cento d' acqua. Nell'Africa e nel Levante vi sono piante che danno fino a 300 chilogrammi di fichi. In China è chiamato cheudze; fresco, à il colore dell'arancio; secco, prende la forma rotonda e s'infila, come da noi il rosario; si conserva dolcissimo e prezioso per i viaggi. I rami teneri del fico e le sue foglie staccate dalla pianta, come pure il gambo del frutto immaturo, al luogo della rottura tramandano un sugo bianco, lattiginoso, che è alquanto corrosivo, e serve a cagliare il latte, e come rimedio volgare a guarire i porri della pelle. Il legno del fico è assai leggero e s'adopera per certe particolari industrie. Le foglie rigide e di un verde carico, sono adatte a pulire i vetri ed i cristalli. La decozione di dette foglie, ridona il colore alle stoffe di lana, scolorate per arature. Il Sicomoro, sul quale è salito il piccolo Zaccheo per vedere Gesù, è la varietà fico moro, o fico d'Egitto e di Faraone. È altissimo, cresce a Rodi, nella Siria ed in Egitto, dove è indigeno. Dà frutti dolciastri, tre o quattro volte l'anno. Il Fico si mangia fresco ed essicato ed è sempre cibo nutriente, sano e pettorale. Sono celebri quelli di Calabria, Sicilia e Smirne. Si usa mangiarlo col prosciutto, col salame. Se ne fa ghiotta frittura, imboraggiandoli sbucciati, con ova e pane. Se ne fa perfino salame. La buccia è indigesta, onde il proverbio: All'amico pela il fico e la persica al nemico. Frate Ambrogio da Cremona asseriva che perchè il fico sia meritevole da portarsi in tavola, dev' essere perfetto, cioè deve avere il collo torto, l'abito stracciato e l'occhio lagrimoso. Per la colazione sceglieva quelli che la mattina per tempo trovava bucati dagli uccelli. Forse da lui quel proverbio: Il fico vuol avere collo da impiccato e camicia di furfante, che nel nostro dialetto suona cosi: El figh per vess bell, el dea vess lung de coll e rott de pell, perciò il Marino lo scrive col verso:
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certe particolari industrie. Le foglie rigide e di un verde carico, sono adatte a pulire i vetri ed i cristalli. La decozione di dette foglie, ridona il
Questo non è il fiore educato nei giardini, il garofano diantus, ma un grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque e fatto indigeno nelle Indie orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc., venne chiamato garofano da noi, perchè à appunto il profumo di questo. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco carion, noce e phyllon, foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i fiorifrutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da settembre a febbraio, si fanno essiccare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche, ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar, da dove ne vengono importati in Europa circa 30.000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere sotto la pressione dell'unghia, si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi si condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi, e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi, si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri, d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani serviva anche a dare un bon alito alla bocca. Entra nella cucina a dar sapore ed aroma ai manicaretti, allo stufato, al manzo, al pesce, alla frutta — si adopera nella pasticceria, nella confezione del vino brulè.
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Questo non è il fiore educato nei giardini, il garofano diantus, ma un grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, esiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: Asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fa un estratto, un'acquavita di ginepro detta gin, molto in uso in Inghilterra; da noi se ne fa della buona sul bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname e intarsiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diaforetiche, antierpetiche. Ne fa una infusione col vino e coll'acqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, e il cotone e le lane ben imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe, ridotto all'ultima miseria si lamenta che vien deriso anche da quelli che, miserabili alla lor volta, si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap. 30, 4).
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Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata
Il lauro, o alloro, è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica, e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie anno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d'animale. Sopra le foglie d'alloro si pone la cotognata ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali s'inframmette. Il decotto d'alloro sparso in terra, scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri, di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, anno odore forte, piacevole,, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara] sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmeaagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flatulenze intestinali, i catarri cronici, le paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche grossolanamente se ne fa un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che hanno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafoe, una crestaina di quei tempi, essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi, non potendo far altro, la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro se abbruciando crepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno ! Per cui Tibullo (lib. II, Eleg. V) dice:
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Il lauro, o alloro, è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli
Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi, acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno argilloso-calcareo-siliceo, clima dolce. Soffre il freddo e il troppo caldo rende il suo frutto stopposo. Cresce sollecitamente. A 20 anni in Sicilia produce circa 1000 limoni; vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China avvi la varietà cheilocarpa, il cui frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono sempre presente. Il limone vuolsi originario dalla Persia. Si narra che un re di quel paese ne facesse dono agli Ateniesi, d'onde si sparse poi in Europa. Plinio parla d'un frutto detto Pomo di Media che i greci chiamavano Kitrion. Si vorrebbe che ai tempi di Plinio il limone non fosse ancor portato in Italia, scrivendo egli stesso: Sed nisi apud Medos et in Perside nasci noluit. Abbiamo però Virgilio che ne celebrò le lodi nella 2.a Georgica:
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Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi, acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto
Il Màndorlo è pianta indigena a foglia caduca, originaria dell'Asia e precisamente della Siria e Barberia. Climatologicamente, occupa il posto tra la vite e l'ulivo. Ama il caldo, terre leggere e calcaree — languisce e muore nelle forti. — Si propaga per seme ed innesto su sè stesso. Nasce spontaneamente nella Sicilia, Spagna, Provenza, a Tripoli e Marocco, vegeta con prosperità sulle riviere di Genova. Fiorisce in Marzo ed Aprile, teme le brine ed il freddo. Se ne contano 9 varietà. La migliore è il màndorlo fino o princesse, il cui guscio si rompe colle dita. Alcune di queste varietà ànno frutto dolce, altre amaro, ma dall'albero mal si distingue il sapore del frutto. La maturanza si riconosce dall'aprirsi del pericarpo carnoso, il quale serve pel bestiame. Il suo nome dall'ebraico suo appellativo che significa vigilante, perchè è il primo albero che si risveglia, e perciò in linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui scopo la più ricercata è la qualità detta saccarelle. Si confettano, se ne fanno varie paste dolci, fra cui l'orzata o semata di mandorle dolci che serve alla preparazione di una notissima bevanda. In Provenza si fanno essiccare al forno e sono di un sapore gustoso. Entrano nel torrone, nei biscotti, marzapani, crocanti, ecc., dove si mischiano pure le amare. La màndorla si pela sempre e, se secca, lo si fa facilmente immergendola nell'acqua bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essiccati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a lungo la màndorla irrancidisce e per conservarla nella state, vuol essere di quando in quando esposta all'aria. Colle màndorle amare si fa una pasta che tiene morbida la pelle delle mani e del viso delle donnine, cosmetici e saponi. Le amare schiacciate o pestate, uccidono il pollame ed i volatili. Una volta si credeva fossero antidoto all'ubbriachezza. Plutarco riferisce che il medico Druso, fratello di Tiberio, tremendo bevitore, gli faceva inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso le mangiasse per eccitare la sete, dicendo Eupoli che fanno venir voglia di bere:
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linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui
Il melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio addossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna, dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in giugno e luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di settembre perchè, aspettando più tardi, la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata, e à dato pure il nome al rosso violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato acquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro, che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre.
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sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro, che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S' adatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da agosto a settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire, à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. Caio (de verborum significatione), dice, da Jovis glans, perchè la noce è la migliore delle ghiande, primo cibo degli Aborigeni e però da essi creduta cibo di Giove. Cloazio è dello stesso parere. Teofrasto crede invece che la ghianda di Giove è la nocciola. Plinio c' insegua che la noce si chiamava anticamente caryon karnon, da kara, testa, perchè à la forma d'una testa, e perchè l'odore che emana l'albero fa male alla testa. I grammatici sono del parere che la voce nux, da dove noce, tragga origine dal nuocere, perchè la sua ombra è nociva, e perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde, incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono, e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura; rotti i gusci, si torchiano subito, perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4 o 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarcele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essiccando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert.
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: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde, incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono, e
. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale, estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essiccativo, è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato, facilmente annerisce e tinge in nera giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola in una gentil pelle brunetta,» dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare, ecc. L'ombra del noce è dannosa alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impegnato dì tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse, e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalogia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno, dà sicuri e risultati specifici. Col frutto se ne fa infuso, decotto, unguento ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni, astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco. I nostri fratelli del Cantone Ticino ve ne possono dire qualche cosa. Dal tronco se ne può cavare, con opportune incisioni, sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. In medicina è usato come antiemetico e purgativo internamente (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidae. Dioscoride le chiamava biliosae, tussientibus inimicae, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sono sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est. Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei re, e le migliori qualità le chiama persica, ma secondo una memoria del dottor Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile, di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinae. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 60). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato, facilmente annerisce e tinge in nera giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera
La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda ne possedeva 266.000 piante. Si propaga per semi ed alcune specie di colombe, segnatamente la carpaphora concinna, ànno una parte attiva nella sua disseminazione trangugiando il frutto, ed evacuando il seme che conserva e forse è favorito nella sua facoltà germinativa, dal passaggio per i loro intestini. À fiori piccoli, biancastri, che lasciano il posto a drupe, o frutti carnosi, grosse quanto un'albicocca, che si aprono in due valve, e lasciano vedere un seme ovoidale nerastro, duro, che è la sua vera noce. Essa è circondata da una pellicola o arilla di color rosso arancio, e frangiata quando è recente, ma che diventa gialla colla essicazione, ed è ciò che noi denominiamo macis. Nel linguaggio delle piante: Potenza. La raccolta di queste noci si fa in aprile, luglio e novembre, le qualità migliori sono colte a mano quando sono mature. Sul mercato inglese si valutano le noci moscate dalla loro grossezza, quelle che ànno circa due centimetri e mezzo di lunghezza, sopra due di larghezza, e dalle quali bastano soltanto quattro a formare un'oncia, sono tenute in alto pregio. Il macis lo si separa dal seme, lo si fa essiccare al sole, dopo averlo immerso nell'acqua salata, ciò che gli conserva morbidezza ed impedisce la volatilizzazione del principio aromatico. Le noci, spogliate del loro arillode, vengono rapidamente essiccate in camere affumicate, sino a che lasciano il loro sottile inviluppo. Così essiccate vengono in commercio, subendo però prima ancora un bagno di latte di calce, ciò che in China si omette. Le migliori noci moscate, sono quelle rotonde, pesanti, fresche, odorose, tramandano un sugo oleoso, aromatico, grasso. La noce moscata ed anche il macis contengono olio volatile, nel quale risiede tutta la loro energia, un'olio fisso, una sostanza buttirrosa volatile, ed un principio estrattivo solubile nell'alcool molto odoroso ed attivo. Questa sostanza buttirrosa che forma circa il quarto del suo peso, è conosciuta sotto il nome di burro noce moscata. Viene falsificata con miscela di cera gialla, sego e polvere di curcuma. La noce moscata, viene essa pure falsificata con quella tarlata dagli insetti, quella vecchia, ammuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro noce moscata, ma nell'acqua si stempera completamente. Jobard di Bruxelles riferisce, che, or sono una ventina d' anni circa, è arrivato da Canton un bastimento inglese, carico di... noci moscate di legno bianco, perfettamente modellate ed imitate. La noce moscata è fra gli aromi uno dei più potenti ad eccitare l'inerzia del ventricolo, a dar vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure; e d'ova. Entra grattugiata non solo in cucina e nella pasticceria, ma nella distilleria, fa parte di vari elisiri, tinture, rosolj, ecc. Il macis è uno dei componenti l'aceto dei tre ladri. I medici assegnano alla noce moscata virtù toniche ed eccitanti. Se ne adopera l'olio in frizioni delle parti paralizzate. Averroè, vuole che, la noce moscata non fosse conosciuta dai Greci e dai Romani. Avicenna, antico medico arabo (n. 980+1037), la conosceva e dice che gli Arabi la chiamavano Jausiband, cioè noce bandese, e doveva essere nota anche agli antichi Egizi, perchè ne abbiamo trovati alcuni frammenti nelle loro mammie e si crede fosse ingrediente dei loro balsami a conservare i cadaveri. Serapione, nel libro II dei Semplici, la descrive appoggiato all'autorità dei Greci. Galeno la chiama crisobalano. Anche Emolao Barbaro, in Dioscoridem, è dell'opinioneche i Greci la conoscessero. Gli Olandesi, nel secolo scorso, si misero in testa di farne un loro monopolio e a tale intento ne distrussero quasi la specie nello Isole Molucche. Ma nel 1770 Poivre, governatore di Bourbon, riuscì a rapir loro, con quelli dei chiodi di garofano, alcuni alberi di noce moscata e li piantò a Maurizio e a Bourbon.
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La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata
L'olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il quindicesimo anno di vita, e aumenta fino ai cinquanta — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel maggio seguente alla fioritura, quando ànno acquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in novembre e dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Cosi si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini cosi soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio, d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (vedi in Sesamo), di arachide e d'altri semi. È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono; lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo: è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'olio cotto non gela. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27, 20) e nel Levitico (cap. 24, 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumasto, chiamato omphacium. Gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come preziosissimo contro una infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'imperatore Augusto domandò a Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e con l'olio di fuori.»
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L'olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo
Nel linguaggio dei fiori: rabbia.È detto peperone quasi pepe grande. Ve ne sono dieci varietà, tra queste: il comune, lo storto, a ciliegia, dolce del Brasile, tondo, di Spagna, di Voghera detto capsicum grossum, carnoso corto ed altre. Quello di Cajenna è piccolo e più forte di tutti. È il capsicum fructescens, di Linneo. In Francia lo chiamano: corail de jardin, perchè, dal color verde lucido, passa nella sua maturità ad acquistare il rosso vivo del corallo, senza perdere della sua lucentezza. È di questo che si fa la famosa paprika in Ungheria. Tutta la pianta à sapore acre, piccante, calido, ma principalmente i frutti, e del frutto i semi sono più piccanti ed acri del pericarpio. I frutti verdi ed immaturi si conservano per uso di tavola nell'aceto, che ne mitiga l'acredine. Rossi, maturi, essiccati e ridotti in polvere costituiscono ciò che si chiama pimento, o pepe di Cajenna, che à pur esso i suoi usi culinari come la più piccante delle droghe indigene. Il peperone vuolsi originario dell'Africa intertropicale, donde fu portato dai negri in America e poi in Europa. I primi che l'introdussero furono i Portoghesi che le chiamavano pimenta del rabo, cioè pepe colla coda. Ma visto che il peperone faceva concorrenza al pepe e temendo di danneggiare il commercio del vero pepe il re del Portogallo ne proibì l'importazione. Tale peripezia del peperone ce la racconta Carlo Clusio in certe sue annotazioni dell'anno 1582. Comunque sia è certo che a noi pervenne dall'America e che prima era sconosciuto. Si chiama capsicum dal vocabolo greco che significa mordere, per indicare il suo sapore caustico. Il pimento, è uno degli stimolanti più attivi del ventricolo, risveglia l'appetito, corregge il languore e l'atonia intestinale, sopprime le flattuosità ed è rimedio infallibile contro le coliche prodotte da carne di pesce. Caccia le ascaridi, giova contro le emorroidi, secondo l'Accademia di Parigi. Eccellente il pimento per condire verdure, pesci e in certe salse. Il capsicum grossum di Voghera si mangia verde all'olio, e scottato nell'acqua bollente e diviso in quattro parti, toltine i semi si possono imboraggiare e farli fritti. I milanesi dicono anche peveron un naso rosso, grosso e bernoccoluto.
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capsicum fructescens, di Linneo. In Francia lo chiamano: corail de jardin, perchè, dal color verde lucido, passa nella sua maturità ad acquistare il rosso
Il pignòlo, o pinocchio, è il frutto del pinus pinea, detto volgarmente pino domestico, pino d'Italia. Albero dell'Europa meridionale, che erge la sua cima fino a 30 metri, a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centimetri, di un bel verde. Fiorisce in maggio e produce coni grossi, durissimi, contenenti màndorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità. Quei coni si rompono, o si mettono al fuoco e allora s'aprono e lasciano la màndorla, aromatica e di grato sapore. Tale màndorla è molto in uso fra noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla pineta di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele, la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle signore che se le lasciavano venire. Sono nutrienti, stimolanti, indigesti. È pasto graditissimo dei canarini, che li fa cantare. Molti devono ricordarsi dei maestri che facevano fare i pignoeu, cioè unire insieme la punta delle cinque dita per batterle colla bacchetta; e pensare che si stava là mogi ad aspettare quel regalo!
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sua cima fino a 30 metri, a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centimetri, di un bel verde. Fiorisce in maggio e produce coni
Noto legume annuale. Quello detto campestre nasce spontaneamente in alcune parti d'Italia e di Germania. Ma il sativum è quello coltivato negli orti. Àvvene molte varietà. Il pisello germina fino ai 3 anni. Il nano (P. humile) primaticcio olandese, da noi detto anche quarantin. Il quadrato (P. quadratum) o reale, bianco e verde, l'umbrellatum, che è piuttosto d'ornamento nei giardini. L'excorticatum, o, pisum sativum cortice eduli, pisello dolce zuccherino che si mangia unitamente al guscio, detto in francese Pois goulus e da noi taccole, ed altre. Nel linguaggio dei fiori: Confidenza. Si può seminarli in varie epoche ed averli tutti i mesi. Il pisello ama terreno leggero, sostanzioso, lavorato e soleggiato; non vuol essere riseminato nel medesimo luogo. Si fa seccare e si conserva per l'inverno. La varietà verde, in Francia, è coltivata su larga scala. In Inghilterra si coltiva il pisello per alimentare le pecore nell'inverno. Vuolsi che il nome di pisello l'abbia da Pisa, antichissima città del Peloponneso, da dove sembra venuto in Italia, come vennero alcuni abitanti di quella Pisa a fabbricare la nostra sull'Arno, che pure battezzarono Pisa, teste Strabone. Altri lo vuole dal nome originario del legume in lingua celtica, o dal vocabolo greco, che significa cadere. Il nostro nome di erbion pare sia un corrotto dell'Arneja spagnuolo o un prolungamento dell'erbse tedesco. Il pisello fu sempre ritenuto uno dei più graziosi legumi. La storia ci tramanda che aveva l'onore delle tavole reali. Gli autori greci e latini ne parlarono tutti con vera benevolenza; i più maldicenti, lo accusano di flattulenze. Perfino l'austerissimo Eupolim, forse il più antico commediografo greco, ne fa menzione onorata. L'imperatore Tito ne andava matto. I medici, non potendone dire male, come al solito, lasciano però scappare qualche bieca osservazione. Baldassare Pisanelli, medico bolognese, nel suo Trattato dei cibi et del bere, dice: «I piselli non sono molto differenti dalle fave, ma fanno venire sospiri et inducono strane meditazioni.» Con sua bona pace, il pisello è l'ottimo fra i legumi, digeribile, saporito, nutriente. Plinio aveva già sentenziato:
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. quadratum) o reale, bianco e verde, l'umbrellatum, che è piuttosto d'ornamento nei giardini. L'excorticatum, o, pisum sativum cortice eduli, pisello dolce
È un grande albero a foglia caduca, originario delle Indie Orientali, della Persia, dell'Arabia e della Siria. Fra Damasco ed Aleppo ve ne ànno selve intere. Da noi è fatto indigeno in Toscana, nel Genovesato e nella Sicilia. Nelle provincie meridionali della Francia vegeta pure con prosperità. Non resiste d'inverno in piena terra nei paesi settentrionali. Vuol terreno sostanzioso, leggero e parche irrigazioni. Si moltiplica per semi, che si fanno nascere sotto cuccia, porta in primavera fiori piccoli, giallognoli, a cui succedono frutti ovali lunghi, secchi, con polpa sottilissima, e grossi quanto una oliva, contenenti un nocciolo che apresi in due valve, entro le quali trovasi una màndorla verde coperta d'una pellicola rossastra, d'un sapor dolce, soave, grato, pingue. Nel linguaggio dei fiori e piante: Accoglienza benevola. Questo frutto è mangereccio e per i pregi ed i difetti è da mettersi insieme al pignolo. Contiene molto olio, che è facile estrarre con semplice pressione. Serve a preparare alcune emulsioni, affatto simili a quelle delle màndorle dolci, prescritte nelle infiammazioni degli intestini e delle vie orinarie. I confetturieri ne fanno grande uso in paste e confetti. I salumai ne regalano le galantine e certi salami a cuocersi. I cuochi lo mettono nei polpettoni e nei croquants, che i fiorentini chiamano pistacchiata. Se ne fa pure una eccellente conserva. Gii Arabi lo chiamano pustach, e gli Olandesi pistassies. Vuoisi che chi lo portò in Italia fosse il console romano Lucio Vitellio, sotto Tiberio, di intorno dalla Siria, come Fiacco Pompeo, suo commilitone, lo portò pel primo, in Spagna.
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quanto una oliva, contenenti un nocciolo che apresi in due valve, entro le quali trovasi una màndorla verde coperta d'una pellicola rossastra, d'un
Si semina in febbraio su letto caldo e si trapiantano le pianticelle sviluppate quando non s' abbia più a temere il freddo e la brina. La troppa vegetazione è a scapito del frutto. Avvene molte varietà. Il pomodoro à germinazione fino ai 4 anni. Il rosso nano precoce, abbondantissimo di frutti grossi, succosi, saporiti, di lunga conservazione dopo colti. Il mostruoso conqueror, dà frutti enormi, da un chilogrammo. À fusto arboreo, così detto perchè si mantiene dritto e robusto a mo' di un alberetto senza sostegno e produce frutti grossi di un rosso assai intenso e si possono conservare più di qualunque altra varietà a frutti grossi. Il piccolo, a forma di pera, che à frutti a grappoli, sono i migliori per mettere in aceto e si conservano sospesi all'asciutto anche nel verno. Il rosso liscio, o senza coste, rimarchevole per la sua bellezza e grossezza. Il pomodoro è un frutto bello ed allegro. Ànno ragione i Francesi di chiamarlo Pomme d'amour. Ancor verde, a metà maturanza, se ne fa frittura aciduletta, si mangia in insalata, si mette nell'aceto per l'inverno. Maturo, rosso, se ne fa salsa gustosissima che oramai serve in cucina per pressochè tutti gli intingoli ed anche per confettura. Si può conservare il pomodoro per l'inverno, tagliandolo orizzontalmente, farlo così essiccare al sole dalla parte aperta e secchi infilarli collo spago e conservarli all'asciutto. Per servirsene, se ne prende la quantità bisognevole, e la si mette nell'aqua tiepida. Conserva così, meglio che altrimenti e la sua polpa e il suo profumo. Il pomodoro è meglio condimento, che cibo; non dà alcun nutrimento. È salubre, benchè contenendo molto acido ossalico, il suo uso troppo generoso e smodato, può disporre all'ossularia, produce vertigini, ronzìo, gastralgie ed altri disturbi nervosi. Il dottor Comi ce la dà molto grama pel pomodoro. Dice che tutte le sue varietà sono sospette, e parecchie nocive. La conserva del pomodoro, in forte dose, usata per condimento, conturba i sensi, agisce sul cervello, cagiona allucinazioni di vista, d'udito e di tatto, rallenta la circolazione, produce ronzìo negli orecchi, insomma un finimondo. Dicesi che una dose rilevante di questo estratto, può in alcuni individui produrre improvvisamente l'apanacea,ossia morte apparente misericordia! Ma, consolatevi, o ghiottoni di pomodoro, altri medici, come sempre, secondo il loro vizio, sono di parere contrario, e sostengono che il pomodoro agisce direttamente e vantaggiosamente sul fegato e valga a conservare la bella tinta del volto. Avviso alle donnine ! Dalle foglie del pomodoro se ne cava una tintura ocracea.
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allegro. Ànno ragione i Francesi di chiamarlo Pomme d'amour. Ancor verde, a metà maturanza, se ne fa frittura aciduletta, si mangia in insalata, si
quella parte. Vuolsi che cotto e lasciato riposare 24 ore, acquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Del seme generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà, tanto precoci, che tardive. Àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni, anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione; è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto, coi salumi, per frutta da dessert; se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca, si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue màndorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino, e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essiccate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e da famosa semata, la prediletta dei nostri nonni. In medicina, tali semi danno emulsioni emollienti e rinfrescanti. I Greci, lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni cholerose. In Francia, per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
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precoci, che tardive. Àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni, anche i rampichini. Alcune varietà
. Plinio dice che non solo il prezzemolo è un cordiale per gli uomini, ma lo è anche per i pesci: Pisces quoque, si aegrotant in piscinis, apio viridi recreantur, il che vuol dire: se ti si ammalassero i pesci nella piscina, mettivi delle erborine verdi che guariranno. Le lepri ed i conigli ne sono avidissimi, anzi il darlo loro fa bene e li fa guarire. Le galline e i pappagalli ne soffrono ed anche moiono. Ma se il prezzemolo è un aroma sano, non se ne deve abusare, perchè è eccitante, la sua radice è più stimolante delle foglie. Del resto i medici gli assegnano virtù diuretica, dà rimedio nelle malattie d'occhi, è febbrifugo e risolvente, vulnerario e narcotico nelle contusioni, nelle echimosi, negli ingorghi lattei. Le famose pillole galattifughe, arcana preparazione della farmacia di Brera, constano principalmente di estratto di prezzemolo. Il seme del prezzemolo triturato in polvere serve di cipria per distruggere i pidocchi. Se si prende una certa quantità di prezzemolo e lo si pone nell'acqua per 48 ore e poi se ne spruzzi il suolo e le lettiere, si è certi di essere liberati dalle pulci. Impropriamente da noi si chiamano erborinn quelle piccole macchie, che troviamo nello stracchino di Gorgonzola, le quali sono nè più nè meno che muffa. In un'antica Cronica milanese troviamo che «Menina Briancea fu l'inventrice della salsa verde, che fassi ottima a Milano nel Monistero Maggiore da quelle sante mani di donna Anastasia Cotta.» Si può essicarlo per l'inverno, e secco triturarlo colle mani e conservarlo in bottiglie ben turate. Gl'inglesi e gli americani fanno molto uso della polvere del seme di prezzemolo nelle salse, zuppe ed intingoli.
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salsa verde, che fassi ottima a Milano nel Monistero Maggiore da quelle sante mani di donna Anastasia Cotta.» Si può essicarlo per l'inverno, e secco
Salsa di prezzemolo. — Pestate nel mortaio una bona manciata di prezzemolo con della mollica di pane inzuppata nell'aceto e spremuta. Passate il pastume allo staccio, unitevi quanto basta di zuccaro per addolcirlo, una piccola presa di spezie, e dell'olio per renderlo liquido a modo di salsa. Questa si chiama salsa verde e serve per il manzo, il pollame ed il pesce in bianco.
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. Questa si chiama salsa verde e serve per il manzo, il pollame ed il pesce in bianco.
Il ramolaccio, o armoracio, è radice annuale, indigena, originaria della China o dell'Asia Minore. Vuole terreno sciolto, pingue e buona esposizione, abborre il massimo caldo. Il seme à virtù per 5 anni. Avvene molte varietà, sì per grandezza che per forma e colore. I bianchi grossi e i ruggini dolci, d'estate si seminano da marzo a giugno, per averne in estate ed autunno. I rotondi, o lunghi, sia bianchi che neri forti, dal giugno a settembre, per averli dall'autunno a primavera. Il ravanello è bianco o rosso, rotondo o lungo, o rosa lunghissimo di Firenze. Si può seminarlo tutto l'anno ed averne tutti i mesi. Meglio seminarlo appena terminati i geli. La miglior semente è quella dell'anno antecedente. Avvi pure il ravanello serpente (raphanus caudatus) di Oiava, ancora poco conosciuto, che à lunghissimi baccelli terminali che possono prolungarsi lino a un metro, di gusto piccante, e che, verde, si pone in aceto. Il ramolaccio e il ravanello addivengono stopposi, bucherati o tarlati, e ciò dipende dalla qualità della terra (che amano terreni forti, tenaci ed asciutti), o al lasciarli troppo nella terra dopo sviluppati, o al conservarli qualche giorno dopo colti. Nel linguaggio delle piante: Dispetto. Il ramolaccio à gusto acre, piccante, si mangia crudo con sale, olio, pepe colla carne. È considerato un condimento pesante allo stomaco e diffìcile a digerirsi. Fu detto che il ramolaccio fa digerire tutto, ma egli non è digeribile:
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che, verde, si pone in aceto. Il ramolaccio e il ravanello addivengono stopposi, bucherati o tarlati, e ciò dipende dalla qualità della terra (che amano
I medici francesi la battezzarono teriaca naturale. La salvia veniva creduta donare l'immortalità e serviva per imbalsamare i corpi e si portava addosso e si mangiava nelle battaglie. Servio ci tramanda che il cuoco di Mecenate faceva arrostire gli uccelletti colla salvia. La salvia è un cibo graditissimo alle api, dai suoi fiori cavano un miele saporito. Le sue foglie servono a pulire i denti. Frate Anselmo da Busto suggeriva ai predicatori e agli avvocati di tenere una foglia verde di salvia sotto la lingua, che la rende più agile e sciolta. Guardatevi dal suggerire tale segreto alla vostra domestica. Coi fiori della salvia si prepara una conserva deliziosa. Le foglie secche si fumano come tabacco, quale rimedio antispasmodico contro la cefalalgia nervosa e l'asma. I Chinesi ne sono ghiottissimi e si stupiscono come gli Europei vadino a cercare il the nei loro paesi, mentre possedono una pianta.
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agli avvocati di tenere una foglia verde di salvia sotto la lingua, che la rende più agile e sciolta. Guardatevi dal suggerire tale segreto alla vostra
Il tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essiccata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto, coltivato in China e Giappone. Nel Giappone, da dove pare originario, viene seminato lungo le siepi e sul margine delle campagne. Dà fiori bianchi come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgono i fiori appena spuntano. Il tè potrebbe coltivarsi anche da noi. Nella China il suo nome volgare è tcha e il letterario ming. Nel Giappone tsjaa. Nel linguaggio dei fiori: Estasi. Nella China si fanno quattro raccolte. La prima da febbraio a marzo e fornisce il tè migliore (tè fiore, tè imperiale) che assai di rado si trova in commercio ed è riservato per l'imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè secco. Molte le varietà. I commercianti chinesi ne ammettono fino a 150, gli europei ne riconoscono una dozzina, che secondo il loro modo di preparazione, si classificano in verdi, neri e profumati. Il verde proviene per lo più da arbusti coltivati sul versante delle montagne, il nero da arbusti coltivati ne' campi concimati, il profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero e verde, e la differenza consiste in ciò che prima di essere torrefatto, il nero subisce una leggera fermentazione, lasciando la foglia ammonticchiata in una stanza per tre o quattro giorni, al quale trattamento il verde non è sottoposto, ed in ciò che il verde è colorato quasi sempre artificialmente, massime se destinato alla esportazione. Pare che la detta fermentazione decomponga nel tè nero certi principi, che in appresso gli darebbero forza e sapore, di maniera che il nero è inferiore al verde — è meno bono e forte. Al Brasile, dove si vuole avere il tè migliore del chínese, il nero si fa al sole e non al forno. Il tè di bona qualità, dà un infuso di color giallo-dorato, limpido, perfettamente aromatico, che, preso con moderazione nè troppo forte, riesce ugualmente favorevole allo stomaco ed al cervello. Questa bevanda aristocratica deve aver sempre un soavissimo profumo. Dal punto di vista igienico non bisogna abusare del tè verde per la sua maggiore e forse troppo forte energia, potendo produrre presso alcuni disturbi nervosi, e preso la sera arrecare l'insonnia. Balzac vuole che questi disturbi nervosi siano precisamente quelli che gli inglesi, con nome oramai cosmopolita, chiamano spleen e che poetizza certe figurette dell'Isola Britanna. Ad ottenere una bevanda molto aromatica e poco astringente, si deve mettere il tè per mezz'ora in infusione con piccolissima quantità d'aqua fredda e poi aggiungervi l'aqua bollente, versando nelle tazze l'infuso prima che divenga molto bruno. L'aqua fredda imbeve tutta la trama della foglia, e l'aqua bollente scioglie poi il tannato di teina, il quale precipita quando l'infuso comincia a raffreddarsi. Il primo infuso è più
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Il tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essiccata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto
2.° Una manciata di dragone, un limone piccato da molti chiodi di garofano, qualche fiore di nasturzio, un po' di pimpinella e fiori di sambuco, una ramella di timo, un poco d'aglio, una piccola cipolla verde — mettete il tutto in quattro litri d'aceto per due mesi, filtrate — conservate.
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ramella di timo, un poco d'aglio, una piccola cipolla verde — mettete il tutto in quattro litri d'aceto per due mesi, filtrate — conservate.
La vaniglia o vainiglia, è il frutto di parecchie specie del genere vanilla; piante erbacee ed arrampicanti, originarie delle regioni calde dell'America e segnatamente del Messico e dell'Asia. La sua fecondazione vuolsi la si deva a degli insetti. À fiori bianchi screziati di rosso-giallo. Se ne conoscono quattro varietà: la planifolia, di cui la migliore cresce nelle regioni calde ed umide del Messico, della Colombia e della Guajana, coltivasi nelle Antille. La gujanensis di Surinam. La palmarum di Bahia fornisce qualità inferiori. La pompona, il vaniglione di odor forte, ma non balsamico, che ricorda quello dei fiori della vaniglia dei giardini (Heliotropium peruvianum), viene dalle Antille, à siliqua grossa e corta, è la più scadente. Queste piante, grosse come un dito, s'avvolgono al tronco degli alberi come la vitalba, il convolvolo e l'edera, e s'innalzano a grandi altezze. Il frutto della vaniglia, chiamato guscio, è una capsula carnosa, lunga 14-15 centimetri in forma di siliqua. La sua superficie dapprima verde poi colorata in bruno-rossastro molto intenso, è dotata di una lucentezza grassa. Contiene una quantità di semi estremamente piccoli, globulari, lisci, duri, neri e contenenti un succo denso e bruniccio, che, maturi, danno una fragranza squisitissima. La miglior vaniglia è quella del Messico, le cui capsule anno qualche volta la lunghezza di 22 centimetri . Epidendrum, dal greco Epi, sopra, e dondron, albero, cioè che corre sopra l'albero. Il nome di vaniglia dallo spagnolo vajnilla, piccola guaina. Nel linguaggio delle piante: Soavità. La vaniglia è uno degli aromi meno irritanti e dei più delicati ed importanti della cucina ghiotta — dà sapore alle carni, a tutti gli intingoli nei quali è introdotta — e serve principalmente per le cose di latte col quale si marita benissimo, per dare aroma al cacao e farne cioccolatta — per sorbetti, liquori, paste. Dà profumo pure ai saponi, entra in molte aque odorifere, per es. l'aqua di Cipro. In Europa si coltiva, da tempo, la varietà planifolia, nelle serre di Liegi, nel Giardino delle Piante a Parigi, e di Hillfield, House-rigate, dopo che Morren, nel 1857, à mostrato che si poteva fecondare artificialmente. Da quest'epoca la fecondazione e la produzione delle capsule si ottengono in tutti i paesi tropicali, e i frutti della vaniglia europea non la cedono nel profumo a quelli del Messico. La vaniglia fu introdotta in Europa dagli Spagnuoli dopo la scoperta dell'America. Gli Indiani chiamano arris arack, il liquore d'anice aromatizzato colla vaniglia. Per conservare la vaniglia la si chiude in una bottiglia di vetro o in un cannoncino di latta, cosparsa di zuccaro. In tal modo si ottiene lo zuccaro vanigliato che serve comunemente in cucina ed in pasticceria. Si falsifica la vaniglia con le vaniglie alterate, o raccolte troppo tardi, o esaurite coli' alcool e restaurate col balsamo peruviano o del Tolù — colla mescolanza di qualità inferiori, quali il vaniglione. Un guscio sano e bono di vaniglia, deve offrire intatta l'estremità ad uncino. La vaniglia in polvere è più soggetta ancora a falsificazione.
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frutto della vaniglia, chiamato guscio, è una capsula carnosa, lunga 14-15 centimetri in forma di siliqua. La sua superficie dapprima verde poi colorata
La virtù germinativa dei semi è di 6 anni. Nel linguaggio dei fiori: Ampolloso. La zucca è eminentemente prolifica. Nell'America settentrionale una sola pianta della zucca somministra alle volte tanti frutti di un peso tale, che uniti insieme passano i 20 quintali. Le varietà più coltivate sono: la verde lunga, internamente bianca. La bianca tonda, internamente gialla — quella a turbante, a corteccia strisciata di giallo, bianco e rossa — quella a trombetta, verde all'esterno, ambedue gialle all'interno — finalmente la verde quarantina, bianca internamente. Àvvene una specie anche perenne (cucumis perennis), che si coltiva in vaso, ma resiste anche in terra, quando venga difesa dal freddo e non ama come le altre il sole. Proviene dal Texas e dalla California. La zucca ama il caldo e l'aqua, della quale ne contiene l'80 per cento. Dalla zucca se ne può cavar zuccaro. Nel 1837, in Ungheria, se ne stabilì una fabbrica, non di zucche, ma di zuccaro. Le sue foglie verdi strofinate sugli animali ne fugano le mosche ed i tavani, come pure, bruciate secche, allontanano le mosche. Dai semi se ne ricava un olio verdastro combustibile e commestibile. Le zucche sono alcun poco medicinali. L'aqua espulsa dalla sua polpa è rinfrescativa al pari del siero del latte. Della polpa se ne fa un unguento che dicesi superare il malvino, il che è tutto dire ! I semi freschi vengono pure adoperati per scacciare la tenia (vermen solitari), forse l'unica cosa bona che possono fare le zucche, perchè riguardo al sapore è sempre... sapore di zucca. I Greci ed i Latini parlano tutti della zucca, ma tutti convengono in questo solo, che per mangiarla bisogna condirla, perchè da sola... è sempra zucca. Aulo Gellio ci racconta che perfino il filosofo Tauro la maritava a cena colle lenti, ed era un filosofo! La zucca non ricerca molta scienza nell'agronomo. Il botanico Scopoli à scritto l'istoria della zucca e degli usi suoi economici. La zucca cresce senza pretese, non ambisce onori, offresi generosa e spontanea alla mano dell'uomo, che in contraccambio la deride in un coll'asino. Mi sono rivolto ad un mio tenerissimo amico, professore in una delle nostre Università, chiedendogli il suo parere sul gusto, sulla maniera di servirsi delle zucche, sugli usi culinari e domestici, ecc. Vi do la sua risposta tale e quale:
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verde lunga, internamente bianca. La bianca tonda, internamente gialla — quella a turbante, a corteccia strisciata di giallo, bianco e rossa — quella
Marinatura di zucche. — Togliete la pellicola verde a delle piccole zucche, tagliatele per tutta la lunghezza in fili sottili, salatele ed aspergetele con poca noce moscata. Dopo mezz' ora spremetele in un pannolino,
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Marinatura di zucche. — Togliete la pellicola verde a delle piccole zucche, tagliatele per tutta la lunghezza in fili sottili, salatele ed